Dopo il corso di scrittura creativa, realizzato per i soci e le socie dell’Associazione Melainsana, è stato indetto un piccolo concorso per permettere ai partecipanti di mettere in pratica quanto appreso e soprattutto di cogliere l’occasione per dare voce alla creatività. Dopo settimane di ispirazione, esercizi e pagine scritte, due elaborati si sono sfidati con i loro incipit avvincenti. A selezionare il racconto vincitore: la giuria social.
Tic Tac, di Arianna Pinti, si aggiudica la vittoria ed è ora disponibile in versione integrale in questo articolo!
Tic Tac
di Arianna Pinti
Se c’è un orologio nella stanza non riesco a dormire. Le lancette mi tormentano. Le vedo ridere di me e ticchettare, imperterrite ticchettare mentre mi contorco nelle lenzuola come una mosca nella tela d’un ragno.
In quella notte sudata mi ticchettavano in testa frammenti ostinati di un dialogo.
Sai, paga di più. E poi, non sono io a decidere cosa farci.
Tic. Tac.
Alla fine serve anche per difesa. Voglio dire, io lavorerei per la difesa. Credimi che se aspetti di far carriera nel settore della ricerca ci diventi vecchia.
Tic. Tac.
Mica mi sono fatto il culo per fare la muffa in laboratorio. Se vuoi fare soldi, o diventi un grande inventore, o ti butti nella ricerca militare. Serve anche per la difesa.
Quelle parole mi tornavano in mente come la recidiva di una malattia. Erano particelle virali che mi avevano infettato e mi albergavano quatte tra le pieghe dei pensieri.
Paga un sacco, la ricerca militare.
– Scusa il ritardo, sono sempre la solita. Ci ho messo un po’ ad alzarmi dal letto, ho dormito malissimo.
Mariam, vedendomi, mi sorrise con i suoi denti bianchissimi e si alzò per abbracciarmi.
– Non preoccuparti. Si sta bene, mi stavo godendo il sole. Il parco è bellissimo questa mattina, hai visto?
Occupai la sedia che mi attendeva di fronte alla sua. Il sole luccicava sul prato attorno al bar e sulle foglie tenere degli alberi; i rami offrivano al cielo azzurro i loro boccioli con l’allegra vivacità di commercianti dalle braccia cariche di collane colorate.
– Stupendo. Hai già ordinato?
– No. Vado io. Cappuccino all’avena e cornetto solito?
Mariam entrò a prendere l’ordinazione per entrambe. Tolsi la giacca e la sistemai sullo schienale.
– Perché hai dormito malissimo? – chiese sedendosi di nuovo.
– Niente di che, – sospirai. – Ero un po’ agitata. Ieri ho avuto una conversazione che mi ha turbata.
– Con chi?
– Un mio vecchio amico. Ci siamo conosciuti al liceo, si è appena trasferito qui a studiare Ingegneria.
Mariam si sporse verso di me, poggiò i gomiti sul tavolino e il mento sui palmi delle mani affusolate. La luce le giocava tra i riccioli bruni e si spalmava sulla sua pelle dorata.
– Siamo usciti a bere qualcosa con un paio di amici, – proseguii – e a un certo punto ci siamo messi a parlare di speranze, ambizioni. Di come ci vedevamo nel futuro. Io ho detto che mi piacerebbe lavorare all’università.
Il cameriere arrivò con le colazioni. Il cornetto emanava un profumo caldo e fragrante di zucchero e burro.
– Adoro questo posto, – dichiarai beata crogiolandomi nei raggi del sole.
– E quindi? Che ti ha risposto?
Inzuppai il cornetto nel cappuccino. Esitai per un momento.
– Lui… ha detto che non lo farebbe manco per sogno. Che la ricerca non ti porta da nessuna parte, che nel suo campo o ti viene un’idea geniale o è impossibile farci i soldi. E che lui vorrebbe fare i soldi.
– E come vorrebbe farli, i soldi?
La guardai; qualcosa tremava nelle sue iridi nere. I suoi occhi erano sempre stati due pozzi profondissimi e scuri, ma tempo prima avevano una limpidezza tale che pareva di intravederne il fondo. Negli ultimi mesi li stava adombrando una nebbia fumosa: lei stessa ne era avvolta.
Iniziai a far girare in tondo il cucchiaino nella mia tazza.
– Vorrebbe lavorare nella ricerca militare, ha detto.
La schiuma del cappuccino si era disfatta; restava superstite qualche bollicina a orlare i bordi.
– E tu… hai risposto? – indagò cauta, con una nota speranzosa nella voce che mi fece nascondere le mani in grembo.
– Io… sono rimasta impietrita. Mi sono sentita distante anni luce. Avevo la sensazione che non mi sarei mai riuscita a esprimere. Sono riuscita a dire che lavorare in quel campo significa contribuire a uccidere le persone. A distruggere la vita della gente. E lui…
Mariam mi fissava come stessi recitando un incantesimo.
– Lui – continuai mentre un senso di nausea mi si affacciava in gola – si è difeso dicendo che non è lui a sganciare le bombe. E che le armi servono anche per la difesa. Che ad uno Stato serve averle, anche se non le usa.
– E gli altri come hanno reagito?
– Uno dei due ha commentato che gli pareva una cosa poco etica. E l’altro ha detto “ci sta”. Ci sta, capisci? Ci sta che sei uno dei più bravi del Politecnico, che studi tredici anni nella scuola pubblica e poi ti fai un gran culo per cinque all’Università, e alla fine tutto quello che hai imparato, tutto quello che sei diventato, lo dedichi a fare armi più precise, bombe più letali! Ci sta.
Sentivo montarmi dentro la stessa sensazione che mi aveva tenuto le palpebre spalancate e la mascella serrata la notte precedente.
– Capisci che significa? Non solo che lui, dopo tutto questo, non ha imparato altro che informazioni, tecnicismi, numeri. Non solo che lui è arido. Significa un fallimento su tutti i fronti. Significa che la scuola non è riuscita a renderlo una persona sensibile, o perlomeno critica. Significa che la società, sempre che questo sia il suo intento, non è riuscita a fare della scelta più giusta anche la scelta più facile. Significa che tutto, tutto, tutto ha fallito.
Il sangue mi ribolliva nelle vene.
– Sai che mi chiedo? Che cazzo la studio a fare, Filosofia? Ha ragione la gente, quando dice che è inutile. Se tanto quando uno riflette nessuno lo ascolta. Se tanto gli scienziati le domande non se le pongono, che poi ci sarà qualcun altro a pensare alle conseguenze del loro lavoro. Se poi quel qualcun altro che ci pensa è il potere economico. E gli interessi, e i soldi.
Ad un certo punto, i miei occhi infervorati misero a fuoco quelli di Mariam: erano spenti. La nebbia si era addensata; era carica di una tristezza sconsolata e opaca. La mia rabbia si incagliò in quella nebbia e si sgonfiò come un pallone presuntuoso al cospetto di una punta sottile di spillo. Deglutii; non fui capace di reggere lo sguardo.
– Non intendevo dire che il problema principale è per chi studia Filosofia, questa è una cosa minuscola. Non posso neanche immaginare come deve essere per… Per chi queste cose le vive sul serio.
– Ale, lo so che non volevi dire questo.
– Io parlo, parlo, mi perdo a parlare. E poi non concludo mai niente.
– Ale?
Mi costrinsi a guardarla negli occhi. Quella nebbia aveva un odore amaro, ma agli angoli delle palpebre c’era una tenerezza risoluta, quasi ansiosa.
– Non devi trattarmi come un vaso di porcellana.
Restammo per un po’ zitte davanti alle tazze vuote, lasciando vagare lo sguardo sulle fronde degli alberi che frusciavano nella brezza, sui volti paonazzi degli sportivi in scarpe da jogging, sulle ruote delle biciclette con i raggi in acciaio che rilucevano ad ogni pedalata.
– Andiamo?
Camminavamo l’una a fianco dell’altra lungo la stradina bianca che si srotolava nel verde del parco – a destra prati, a sinistra prati. Mentre ci inoltravamo nelle ore più calde, come una marea timida sempre più gente si riversava lungo il percorso sterrato: sommessamente, crescevano il vociare e lo scalpiccio.
D’un tratto, notai che qualcuno nella folla mi guardava: misi a fuoco un volto conosciuto. Mi irrigidii. Mi stava salutando.
– Che fai da queste parti?
Ci fermammo.
– Abbiamo fatto colazione al bar. E ora approfittiamo del sole, – abbozzai un sorriso sbrigativo.
– Già, è una giornata perfetta. Studiate insieme?
– No, ci siamo conosciute nella squadra di pallavolo dell’università. Lei è Mariam. Mariam, Pietro.
Lui le strinse la mano, sollevando un angolo della bocca in un’espressione ebete.
– Cosa studi, Mariam?
– Storia dell’arte. Tu?
Lui strabuzzò gli occhi nocciola: – Storia dell’arte? La storia dell’arte mi ha sempre fatto impazzire. Ho comprato proprio ieri un libro sui Preraffaeliti. Non sono un esperto, eh, – si schermì, mentre un inusuale rossore gli accendeva le guance pallide – sono solo un appassionato.
– Non l’avrei detto, – commentai sollevando scettica un sopracciglio.
– Perché no? – replicò lui senza voltarsi verso di me. Il suo sguardo pareva essersi impigliato tra le ciglia folte di Mariam.
Studiai i suoi lineamenti squadrati, i corti capelli biondicci, il profilo severo. Il suo tono noncurante mi rimbombava in testa: paga un sacco, la ricerca militare. Mi morsicai la lingua.
– Non ti facevo il tipo.
– E quale genere preferisci? – domandò rivolto a Mariam.
Lei nominò Monet e Renoir, lui volle sapere cosa amava dell’Impressionismo.
Mariam si sistemò una ciocca di riccioli dietro l’orecchio, guardò verso l’alto come stesse cercando la risposta tra le chiome degli alberi.
– Vogliamo continuare la passeggiata? – proposi.
Iniziarono a camminare distrattamente. Mariam parlava di opere d’arte volteggiando dall’una all’altra; i suoi occhi vagavano assorti tra mandorli e tigli come vedesse i quadri appesi ai rami delle piante. Pietro contemplava i suoi zigomi delicati, le sopracciglia arcuate, la luce che le brillava nello sguardo umido d’inchiostro nero; sembrava voler bere le sue parole.
Misi le mani nelle tasche dei jeans, mi lasciai accarezzare dal venticello tiepido e profumato di primavera. I volti della gente quel giorno parevano distesi; l’allegro vocio della folla si mescolava al calore sempre più intenso della mattina.
– Ragazzi, devo andare, – li interruppi. – Ho lezione a mezzogiorno.
– Pessimo orario per una lezione, – commentò Pietro.
– Tremendo, – convenni allargando le braccia.
Un ragazzo sui pattini ci sfrecciò vicino.
– Anche tu hai lezione? – Pietro soppesò l’espressione di Mariam con finta disinvoltura. Lei si riscosse dall’opera impressionista in cui il suo sguardo era ancora immerso.
– No, oggi no. Stamattina mi riposo.
– Neanche io, – le rivolse un sorriso impacciato: – Ti va di restare?

Arianna Pinti
Ho 23 anni, spesso uno zaino in spalla e quasi sempre una penna in mano.
Provengo dall’Umbria immersa nel verde.
Un anno fa, la traccia di un sogno mi ha portato a Bologna, dove attualmente studio Filosofia.
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