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L’ingegnere
Un racconto di Francesco Maria Olivo
 

Io sono un ingegnere. Quando non posso avere un numero certo, provo ad ottenerne uno attendibile, per stima o ricavandolo da precedenti esperienze similari. Se ho un muro e un metro, ne posso misurare la lunghezza. Se devo effettuare uno scavo, so che da ogni metro cubo di terra compatta ne risulteranno tre di terra sciolta.

Ho avuto un infanzia e una pubertà terribili. Nonostante mio padre fosse molto ricco, i bambini non puoi controllarli. Mi prendevano in giro per la mia altezza, per il mio corpo gonfio di cortisone a causa delle continue malattie, per il mio viso butterato, pieno di brufoli. Ero il più piccolo di età della classe, ma ero di gran lunga il più alto di tutti, il grembiule delle elementari era ridicolo su un corpo di oltre un metro e settanta. Ero anche il più bravo, il più capace, sapevo scrivere e far di conto, ricordavo tutte le date. Ero sempre solo, mi deridevano, mi ghettizzavano, tutti i soldi di mio padre non potevano comprami un solo amico, per i bambini i soldi non hanno valore. Le ragazzine della mia età mi ignoravano. A dieci anni mio padre decise di cambiare quartiere e mi iscrisse in una nuova scuola.

Sono un adolescente forte e sano, il corpo si è sfinato e irrobustito, mio padre è molto ricco e gli adolescenti sono sensibili al fascino del denaro. Nella nuova scuola nessuno conosce il mio passato. Nessuno dei nuovi compagni è responsabile di quanto mi è accaduto fino a ora. Tra di loro ce n’è una , Sara, è la compagna di banco. Mi è stato assegnato un banco in prima fila, i compagni alle mie spalle si lamentano perché non riescono a vedere la lavagna, io sono molto alto, ma né i professori, né il preside prendono provvedimenti, mio padre è molto ricco. I banchi sono accoppiati a due a due, in legno, di quelli con i sedili ribaltabili. Sara in quella scuola ci è cresciuta, ha fatto le elementari e le medie, è lì da sempre, ma sconta un peccato per il quale non esiste assoluzione, è povera. È povera, è piccola di statura, è bruttina. Ho iniziato a prenderla in giro dal primo momento, la derido, le faccio il vuoto intorno, non le consento di mangiare e bere durante l’intervallo, non le consento di alzarsi nemmeno per andare al bagno, man mano occupo con le mie cose la sua porzione di banco, ogni giorno un po’ di più, e rubo le sue sotto gli occhi dei professori e degli altri compagni. Se non ho cose da metterci, rigo la parte che resta con un temperino e lo brucio con un accendino, in modo che lei non possa utilizzarlo a dovere. Nessuno osa fiatare. Io sono diventato grosso e forte, e mio padre è molto ricco.

Quinto anno di liceo: appoggio una mano sulla piccola parte di banco che è rimasta a Sara, per prendere il suo diario e stracciarlo. Sara non ne può più, e con un gesto fulmineo, inatteso, prende una penna e mi trafigge il dorso della mano, da parte a parte, il sangue zampilla, il dolore è atroce. Non ci vedo più, le do un pugno con la mano libera, la colpisco violentemente, Sara è piccola, crolla.

Sara è a terra, indifesa. Estraggo la penna dalla mano. Continuo a colpirla mentre giace sul pavimento, una gragnola continua di calci e pugni, al volto, al ventre, ovunque, alla cieca. Sara è una maschera di sangue, nessuno interviene. Un compagno che gestisce il giornalino di classe prova a fare una foto, vuole scrivere un articolo, gli rompo la fotocamera. Il preside lo allontana e chiude il giornalino, mio padre è molto ricco. Il bidello, quello che durante la ricreazione vende cornetti e pizzette, prova a portarle un po’ d’acqua, lo scaccio in malo modo. Il preside minaccia di licenziarlo, mio padre gli ha telefonato. Qualcuno ha chiamato un’ambulanza, ma non permetto ai medici di entrare in aula e di soccorrerla, prendo a calci anche loro. Arrivano le forze dell’ordine, ma restano fuori mentre io provo a buttargli addosso tutto ciò che ho sotto mano e loro lì, immobili, anche i loro capi hanno ricevuto una telefonata. I genitori degli altri alunni e i professori disapprovano, parlottando a bassa voce tra di loro, ma non intervengono. Io veglio per giorni sul corpo di Sara, sotto gli occhi di tutti. Sara muore, lentamente, le sue ferite si infettano e non ci sono antibiotici, si spegne poco a poco, senza acqua né cibo, e nessuno muove un dito. A chi osa fare domande, mostro il trofeo della mia mano ferita.

Mi domando: è possibile considerare il gesto di Sara un atto crudele e ingiustificato, o piuttosto l’inevitabile disperato epilogo dovuto alle vessazioni e privazioni che io le ho imposto per anni? Inoltre, il mio comportamento seguito alla comprensibile reazione iniziale è ancora assimilabile a una legittima difesa?

Io sono un ingegnere, se non posso disporre di numeri certi, di rilevazioni, cerco di ottenerne di attendibili. Sessantamilasessantamila Sara. Sessantamila e non è finita qui. Donne, uomini, bambini, anziani, inermi, stremati, bersagli senza alcuna possibilità di difendersi o fuggire. Sessantamila pezzi di carne. Una dimensione media di un metro e cinquanta per quaranta centimetri per venti. Formerebbero una fila di quindici chilometri, uno dietro l’altro, tutta Napoli da san Giovanni al lungomare di Bagnoli, ammassati in attesa di un tozzo di pane e di un sorso d’acqua. Un peso medio di quaranta chili. Due milioni e quattrocentomila chili di carne in putrefazione. Due tonnellate e mezza di vite in putrefazione. Ma quanto spazio occupano sessantamila corpi? Settemiladuecento metri cubi, se fossero compatti, come la terra prima di smuoverla. Accatastati alla rinfusa, per analogia occorre moltiplicare per tre. Ventiduemila metri cubi di carni morte. Tre palazzi di trenta metri per venti e quattro piani di altezza. Un piccolo parco costruito con corpi, pieno zeppo di corpi. Se a questi aggiungiamo quelli dispersi, quelli morti per fame , sete, freddo, mancanza di cure, il parco diventa più grande, forse a dir poco raddoppia. E questo parco ha una piccola portineria, fatta di arti, mani, braccia, gambe amputate, ammassate l’una sull’altra. Dieci piscine olimpioniche colme degli umori della decomposizione.

Sessantamila, una media città di provincia deserta, in cui non si sente alcun suono ma si avverte l’odore acre della decomposizione. L’odore si disperde nell’aria, noi siamo troppo lontani per sentirne davvero il fetore.

il morso del ratto di francesco maria olivo

IL MORSO DEL RATTO

F. M. Olivo

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